Attivarsi con impegno costante per una forte sensibilizzazione sociale e culturale contro la tratta che apra percorsi di speranza. E’ stato questo il tema della veglia di preghiera per le vittime di tratta, che si è svolto ieri a Palermo in memoria di santa Bakita, in occasione della 6a Giornata internazionale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone. L'evento è stato organizzato dall'Usmi Sicilia in collaborazione con la Caritas, il Coordinamento antitratta, Le Rose Bianche, il Segretariato attività ecumeniche (SAE) e la parrocchia di Sant'Antonino.
La serata ha avuto inizio con una fiaccolata, partita da piazza Sant’Antonino che si è poi conclusa in Cattedrale, dove si è svolto il momento di riflessione. L'invito rivolto all'assemblea è quello di un impegno comunitario e personale per conoscere la realtà della tratta di persone a livello globale e locale; pregare per le vittime della tratta perché termini questa schiavitù; chiedere una legislazione locale e nazionale che protegga le vittime, aiuti i sopravvissuti e persegua i trafficanti.
I diversi momenti di riflessione sono stati accompagnati dagli intermezzi musicali del coro gospel multietnico Nightingales Singer Ensemble. All'altare sono stati portati con la loro forte connotazione simbolica un mappamondo e delle catene. Due giovani hanno percorso il corridoio centrale della chiesa con dei cartelloni: avevano due maschere bianche e i cartelli con le scritte “cliente” e “merce”.
"La tratta è una piaga che colpisce indistintamente tutti ma soprattutto i più poveri e coloro che in vario modo possono definirsi 'ultimi' - ha detto la giornalista paolina suor Fernanda Di Monte, tra le organizzatrici della veglia - e 'scartati' della nostra società. Coloro che vivono ai margini e i più deboli come le donne e i bambini sono le vittime privilegiate di ingiustizie e soprusi".
La serata si è articolata con il racconto di tre storie di disperazione, di povertà ma anche di coraggio. La prima è la storia di una donna dell'Uganda che per motivi economici fu truffata da un'agenzia che le offrì di lavorare in Medio Oriente in condizioni di “schiavismo” vero e proprio. "Credevo di avere avuto una grande opportunità e invece mi ritrovai - si legge nel racconto di Jessie - in un contesto di schiavitù domestica. Lavoravo senza sosta e non ricevevo né cibo né compenso". Per fortuna la ragazza riuscì a fuggire e per lei fu l'inizio di una nuova vita.
La seconda storia proviene dalla Thailandia. "Ho 40 anni e ho vissuto in una baraccopoli in Thailandia -. Non ho potuto studiare perché i miei genitori erano poveri, non avevo documenti ed ero e sono tutt'ora affetto da schizofrenia. Mi guadagnavo da vivere con la vendita dei rifiuti - si legge nel racconto di Somchai -. Quando mi fu proposta l'occasione di imbarcarmi in un peschereccio, ho accettato ma purtroppo mi ritrovai in una situazione peggiore di prima: mangiavo poco e non riposavo mai. Anche il pagamento promesso non arrivò mai. Dopo alcuni mesi sono stato abbandonato in un'isola dell'Indonesia". Il giovane è riuscito a fuggire e con l'aiuto di due organizzazioni ecclesiali riuscì a riconquistare la libertà e tornare in Thailandia dove oggi riesce a vivere
L'ultima storia proviene dall'Italia ed è di una giovane nigeriana. "Dopo la morte di mio padre, avevo deciso di lasciare la Nigeria perché volevo aiutare mia madre e i miei fratelli. Arrivata in Italia con la promessa di un lavoro mi ritrovai in strada - si legge ancora nel racconto di Maryam - sotto le direttive di una madame che mi sottoponeva a violenze fisiche e psicologiche. Pensavo che una volta saldato il debito mi sarei liberata dall'incubo. Loro chiedevano sempre più soldi. Sola e senza documenti finii in carcere pur essendo innocente". La ragazza dopo il carcere è stata accolta in una comunità per ottenere gli arresti domiciliari. In questi anni è riuscita a trasformare la sua vita e ad aiutare molte giovani che erano cadute come lei in mano dei trafficanti. Oggi è mamma, ha una famiglia e lavora come educatrice nella comunità".
"Ciascun volto può essere incontrato, accarezzato, ascoltato. Insieme è possibile spezzare le catene della schiavitù - dice il pastore valdese Peter Ciaccio -. In questo modo, le storie di vita possono diventare storie di rinascita, speranza e dignità".
"La cosa principale da fare è quella di fare emergere in tutto il suo spessore questo dramma - sottolinea l'arcivescovo Corrado Lorefice -. Occorre quindi dare voce ad una realtà che rischia di non essere colta. Spesso, infatti, ci si lascia risucchiare dall'ordinarietà ma bisogna diventare moltiplicatori del bene nella nostra quotidianità avendo cura di chi è più ferito e fragile. Ci conforta il fatto che sta crescendo sempre di più la forte sensibilità di alcuni gruppi che, la sera e la notte, si spendono con grande senso di responsabilità e coraggio per manifestare a queste ragazze una prossimità senza lasciarle sole ed abbandonate da tutti. Dobbiamo, però, continuare a fare cultura nello stesso tempo per dire che la tratta è profondamente disumana. Occorre che tutte le comunità nazionali ed internazionali possano impegnarsi per accogliere, proteggere e fare recuperare la dignità a queste persone. Penso a noi che ci affacciamo sul Mediterraneo e a quante di queste persone vengono illuse, quando arrivano in Italia, ritrovandosi poi preda di una schiavitù senza scrupoli mentre cercavano, invece, la libertà".
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