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Festino di Santa Rosalia.Incontro con i rappresentanti delle religioni e delle confessioni cristiane


Carissime Sorelle, Carissimi Fratelli,

il saluto che vi rivolgo – chiamandovi ‘sorelle’, chiamandovi ‘fratelli’ – è per me stamattina anzitutto un simbolo. Non si tratta infatti in primo luogo del saluto liturgico del vescovo, ma dell’esplicitazione del suo senso più profondo, quello che Papa Francesco ha evocato nello storico discorso di Abu Dhabi (4 febbraio 2019): siamo parte della stessa famiglia, ci apparteniamo reciprocamente. Perché l’umanità che ci accomuna non è una categoria filosofica o un dato puramente biologico. Essa rimanda nel profondo alla radice del nostro essere, alla dignità dell’essere di ogni donna, di ogni uomo. Immersi nel dinamismo del creato, siamo figli della vita e della terra, siamo legati da un’origine a cui non ci possiamo sottrarre e che ci connette a un centro reale e inesprimibile, nel quale, insieme ad ogni creatura, siamo ricchi del nostro «essere alla vita» (Eugenio Mazzarella) e siamo poveri della nostra dipendenza, del nostro bisogno originario dell’altro. Ricchi del desiderio prepotente di vivere; poveri – ed è una povertà benedetta – dell’impossibilità di esprimerlo e di dargli forma da soli.

Questo mondo, nel suo progetto originario, ci appare per fortuna refrattario agli imperatori e ai dominatori, a quelli che pensano di farcela da soli. Illusi, che non capiscono il senso del simbolo, del symbolon (σύμβολον, συμβάλλω «mettere insieme, far coincidere»: σύν «insieme» / βάλλω «gettare»): il coccio che ognuno di noi porta in dote per comporre il vaso della vita. Chi si sottrae a questa logica perde il contatto con gli altri e con le cose, e alla fine è destinato alla rovina non da un destino avverso, ma dal suo aver perso di vista l’orizzonte che ci costituisce.

Per questo noi qui stamattina ci sentiamo famiglia. Che non significa comunità simbiotica. La nostra comunanza non è una banale, avventata, violenta omogeneità. Essere familiari equivale al sapere essere diversi, assieme, al saper portare insieme (al con-sopportare, avrebbero detto gli scrittori ispirati del Nuovo Testamento) la diversità. Le famiglie in cui qualcuno vuole comandare in maniera autoritaria – e si può essere autoritari sia usando la forza, sia avvalendosi di una sottile manipolazione dell’altro – sono destinate alla rovina. Non siamo chiamati a stampare la nostra impronta sulla vita e sul volto di chi ci sta accanto, ma a riconoscere e a lasciar essere l’impronta speciale di ognuno nel mondo. L’imposizione, l’annullamento dell’opinione altrui, la creazione delle ‘pecore nere’, la pretesa di omologazione religiosa, culturale, esistenziale sono il tradimento e la fine della relazione. Siamo famiglia, qui stamattina, proprio perché siamo e ci sentiamo diversi. Perché ci confrontiamo con libertà e rispetto non a partire da un preteso ‘minimo comun denominatore’ religioso e culturale, ma dal nostro comune essere donne e uomini – lo abbiamo detto – eppure originali, irripetibili. Nella tradizione biblica – ovvero il symbolon che stamattina posso portare io alla nostra tavola – tale verità viene espressa in maniera coinvolgente e drammatica nel Libro dei Salmi: il Libro in cui di preghiera in preghiera, di Salmo in Salmo, un uomo, un singolo uomo, leva la propria voce verso Dio, a partire dalla propria storia, dalla proprio vissuto di gioia o di dolore, dalla propria speranza di liberazione e di salvezza, e sa, – perché la Parola stessa glielo ha rivelato in principio, in Israele – che il Dio dei suoi padri gli darà ascolto. E in Gesù di Nazareth questa cura per il singolo, questa considerazione per ogni vita, giunge alle estreme conseguenze: il Padre che veste l’erba del campo (cf Lc 12, 28) conta pure i capelli di ognuno di noi (cf Mt 10, 30), senza distinguere i buoni dai cattivi (cf Mt 5, 45), i credenti dai non credenti, con una infinita larghezza del cuore, con la sua makrothymia (cf 1 Pt 3, 20; 2Pt 3, 15; 1Tm 1, 16).

Siamo famiglia perché stamattina ci salutiamo come amici, con gentilezza e cordialità. Quella cordialità evocata implicitamente ad Abu Dhabi da Papa Francesco all’inizio del suo discorso, punteggiato di nomi e di ringraziamenti. Essere gentili vuol dire chiamarsi per nome. E riconoscersi. Gentili come nobili e come stranieri, senso duplice e fascinoso della parola. Perché c’è una nobiltà della gentilezza che dobbiamo tornare a far risplendere. E noi oggi vogliamo porre un segno in questa direzione, accogliendoci con rispetto, con un cuore aperto e riconoscente. Pronti ad apprezzarci, a spendere parole buone per l’altro, a indicare la via della differenza come l’unica via autentica dell’umano, per come pian piano l’abbiamo maturata, dopo secoli e forse millenni di incomprensioni, di tradimenti delle nostre parole fondative, di qualunque delle nostre confessioni. Abbiamo imparato, in questi anni più vicini a noi – anzi «i segni dei tempi» (Giovanni XXIII) ce lo hanno rivelato –, che la religione come fortino eretto ‘contro’ gli altri è una follia senza futuro. Abbiamo capito che solo accettandoci in quanto diversi possiamo essere portatori di speranza. Tutti diversi, tutti stranieri.

Vi ospito qui oggi con grande gioia, ma non sono il proprietario di questo luogo. In verità ci ospitiamo a vicenda, da pellegrini, nelle tende che andiamo piantando lungo le strade della nostra vita. Anch’io stamattina sono ‘straniero’ accanto a voi, ed è la mia unica, la nostra unica identità. La casa ogni volta è di tutti perché nessuno è di casa, nel senso della proprietà, della difesa di spazi e di muri. È questa una concezione miope e frustrante della casa a cui noi oggi opponiamo umilmente il nostro concepirci sempre in casa ‘fuori di casa’, il nostro essere sempre in cerca di dimora e mai padroni altezzosi e gelosi di uno spazio, di un mondo vitale.

Papa Francesco ad Abu Dhabi ha parlato dell’arca della fratellanza, ed è forse questa l’unica immagine di casa che ci è confacente quest’oggi: «Secondo il racconto biblico, per preservare l’umanità dalla distruzione Dio chiede a Noè di entrare nell’arca con la sua famiglia. Anche noi oggi, nel nome di Dio, per salvaguardare la pace, abbiamo bisogno di entrare insieme, come un’unica famiglia, in un’arca che possa solcare i mari in tempesta del mondo: l’arca della fratellanza».

Una casa mobile, precaria, esposta, e intanto capace di riunire, di condensare l’economia del creato e di raccogliere la differenza tra i viventi. Una casa priva di certezze, abbandonata al diluvio e al pericolo, ma fonte di salvezza per la sua dote unitiva, che fa della terra tutta una sterminata fraternità. Nell’arca nessuno ha più diritti dell’altro. Nessuno può aspirare a un primato. Si è tutti ‘sulla stessa barca’, membri di una medesima famiglia, assoggettati ad un medesimo destino. Non dobbiamo dimenticare infatti che la radice etimologica di ‘famiglia’ rimanda alla parola latina famuli. Il famulo è il servo, non nel senso brutale dello schiavo, ma di colui che servendo gli altri forma la spina dorsale della comunità, fa la famiglia.

Riscopriamoci stamattina famuli gli uni degli altri. Sentiamoci messi nella posizione dell’essere in favore di qualcuno, del partecipare ad un’impresa comune, in un mondo – come ci ricorda il Papa – angustiato dall’individualismo e dal nazionalismo. Testimoniamo, col nostro stesso incontrarci, una logica diversa: quella di chi non cerca preminenze, di chi non si arrende all’idolo della massimizzazione del profitto, che non mistifica la nobile idea di ‘patria’, ma si scommette per il servizio, per la comunicazione della speranza, per la germinazione della vita. Lavoriamo insieme per la giustizia, consapevoli con Francesco che «Una giustizia indirizzata solo ai familiari, ai compatrioti, ai credenti della stessa fede è una giustizia zoppicante, è un’ingiustizia mascherata!». Impariamo insieme, care Sorelle, cari Fratelli, la virtù mirabile dello ‘stare sotto’, della hypomoné che ha ispirato tutta l’esistenza di Gesù di Nazareth e che oggi è per noi un compito aperto e urgente. Solo i servi, solo i famuli custodiscono l’equilibrio della casa e lo mantengono. La casa comune ha urgente bisogno di servi così, per non spaccarsi irrimediabilmente, per non perdere la sua stessa vocazione fondamentale.

Dove l’odio sembra farla da padrone e la divisione pare fendere la cortina della storia, riportandoci a tempi bui di contrapposizioni ferali, di egoismi di gruppo; dove lo sfruttamento dell’altro, del fratello del Sud del mondo come di ogni Sud esistenziale ed umano si appresta a diventare la regola non scritta della civiltà globalizzata; dove il divario tra i ricchi e i poveri si allarga inesorabilmente e le istituzioni che dovrebbero garantire la giustizia e l’equilibrio sono afflitte dai virus della potenza e del dominio privo di scrupoli (parlo anzitutto della mia Chiesa, della Chiesa cattolica e di coloro che al suo interno provano con ogni mezzo a fermare la semplice rivoluzione del Vangelo portata avanti con coraggio da Papa Francesco); dove tutto questo si affaccia sulla scena della storia come prodromo di una notte angosciante, poniamo i nostri corpi stamattina gli uni accanto agli altri; affianchiamo le nostre vite e quelle dei nostri fratelli, delle nostre comunità, per cominciare da qui a levare il grido dei poveri, a difendere l’anelito di giustizia e di amore, a dire che un mondo diverso e una civiltà nuova sono possibili, perché i semi di questo cambiamento sono annidati nella vita degli umili, dei ‘credenti’ di ogni latitudine, degli uomini di fede, religiosi o non religiosi, che ogni giorno, da veri famuli, tengono viva la storia di tutti. Contribuiamo insieme a «smilitarizzare il cuore dell’uomo» e a scongiurare la «desertificazione dell’altruismo».

Dice la saggezza chassidica: «Ci sono persone che non hanno nessun potere apparente, ma che nel silenzio sostengono il mondo». Affidiamoci stamattina alla sapienza nascosta degli invisibili e leviamo la nostra preghiera affinché la loro opera quotidiana sia accompagnata e benedetta dall’Alto. Benvenuti! Vi abbraccio con cordiale amicizia!

Monsignor Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo


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