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Messaggio di Quaresima dell’Arcivescovo: “Perché l’amore non si raffreddi in noi e nella città degli



“Care sorelle e cari fratelli, gioia e pace nel Signore Gesù.

Papa Francesco, nel suo messaggio per la Quaresima di quest’anno ci invita a riflettere su un versetto del Vangelo di Matteo: «Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24,12). Nel commento che ci dona, egli ci mette in guardia da falsi profeti che hanno il potere di raffreddare la carità. E individua alcuni segni di questo raffreddamento comunitario della carità: «l’accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è apparente, riducendo in tal modo l’ardore missionario».

Questa ripresa del testo evangelico da parte del Santo Padre mi ha interpellato e mi ha suggerito alcune riflessioni che voglio condividere con voi, che mi siete cari nella fede e nell’umanità.

La colletta della prima domenica di Quaresima, in una traduzione più letterale del testo liturgico latino, ci fa pregare così: «Concedici, o Dio onnipotente, che in virtù dell’annuale pratica del sacramento della Quaresima cresciamo nell’intelligenza del mistero di Cristo e con degna condotta di vita ci conformiamo a ciò che esso opera».

La Quaresima si origina nell’esistenza di Cristo, nel suo ritirarsi nel deserto, sottoponendosi alla tentazione di Satana. La radice del tempo quaresimale è piantata dunque nel principio della vita del nostro Signore, che cominciò il suo cammino messianico con un combattimento interiore contro le forze che volevano distoglierlo dalla relazione col Padre suo. Capiamo così che la Quaresima è un tempo di scelta, di decisione radicale. Essa viene a rammentarci che al centro della nostra esistenza non ci si decide per Dio una volta per tutte. I tre movimenti del racconto delle tentazioni ci dicono che in verità Dio si sceglie e continuamente si ri-sceglie. E tutto questo dentro la lotta. Una lotta mortale tra le tante strade che sembrano portarci verso la felicità. In quel deserto durissimo e mirabile Gesù ci ricorda infatti che, per raggiungere la pienezza, l’uomo deve attraversare le tentazioni del bisogno (“Ebbe fame”), della paura della libertà (“Se mi adorerai ti darò tutto”), dell’orgoglio che giunge a sfidare Dio (“Gettati da qui”). Gesù che rimette la propria vita e il proprio nutrimento nelle mani di Dio, scegliendo ancora una volta la relazione con il Padre e non una sterile autosufficienza, ci indica la via della vittoria contro le forze che vogliono depistarci: l’affidamento sereno e totale nelle braccia di Dio. Nelle parole e nei gesti dei discepoli di Gesù continua a germogliare il Regno di Dio, che si nutre del ‘sì’ che diciamo al Padre, in mezzo a tutte le nostre fatiche e tutti i nostri limiti. È questo ‘sì’ il nostro granellino di senape, il più piccolo di tutti i semi, che crescendo diventa un arbusto capace di accogliere alla sua ombra gli uccelli del cielo e gli uomini stanchi e accaldati dalla calura della giornata umana (cfr. Mt 13,32).

Gregorio Magno scriveva: «Ciò che era visibile in Cristo è passato nei sacramenti della chiesa». La Quaresima ci rimanda alla sua stessa forza salvifica. Anche noi, per così dire, veniamo sospinti, gettati nel deserto quaresimale come lo è stato Gesù – «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto» (Mc 1,12) – che si lasciò guidare, obbedendo e sottomettendosi alla forza dello Spirito. Allo stesso modo, la Quaresima è un tempo opportuno perché Dio agisca nella nostra vita; è anzitutto l’azione di Dio in noi, è l’opera dello Spirito santo che ridisegna il volto della sua Chiesa per conformarlo al volto e ai gesti di Gesù di Nazareth, per mettere sulle sue labbra le parole di Gesù.

Tertulliano affermava che il “padrenostro” è la sintesi di tutto il vangelo (breviarium totius Evangelii). Per certi aspetti la Quaresima è il condensato della vita cristiana (breviarium christianae vitae). La Quaresima tende a far conseguire ai cristiani e alle comunità dei discepoli di Cristo una più profonda intelligenza del mistero di Gesù Cristo e una conformazione, una plasmazione del loro essere su questa sapienza della vita.

Sono due dimensioni inscindibili. Il ritornare a Dio, a sé e agli altri, passa attraverso la relazione con Gesù, la consuetudine di vita con lui e l’assimilazione del suo sentire in grande, della sua macrothymia, e del suo stile di vita. Il punto è quello di ricollocarsi nel mistero di Cristo, di Colui che ha vissuto la sua esistenza umana alla presenza di Dio, in una fede compiuta (Eb 12,2), narrandoci così il volto di Dio (Tt 2,11-12; Gv 1,14.18). Si tratta di far spazio, di disfarsi di ciò che zavorra la vita per accogliere il Signore; si tratta di dare una forma cristica alla propria vita, di ritornare a «vivere secondo la forma del santo Vangelo» (Francesco di Assisi); di vivere sotto la guida dello Spirito che presiede all’opera della nostra conformazione a Cristo, il Figlio di Dio nel quale diventiamo anche noi figli.

La Quaresima presiede al risveglio dell’«uomo interiore»: ci riconsegna alla percezione della nostra fragilità umana e ci fa riscoprire come realmente abbiamo fatto albergare il peccato nella nostra vita. Ci dice che non abbiamo vissuto secondo i dettami della nostra coscienza illuminata dalla legge di Cristo (cfr. Gal 6,2). Prima dello stesso comandamento dell’amore, la legge dei cristiani è Cristo che vive in noi (cfr. Gal 2,20). Dobbiamo ammettere che nel nostro cuore si è raffreddata la carità, l’energia di Cristo, il dono dello Spirito, la vita nuova. La Quaresima ci fa fare verità in noi stessi. Riconoscere il nostro peccato, la nostra aridità spirituale, l’esserci fatti contagiare nel male: è questo il primo risultato di una Quaresima vissuta con autentico impegno. A ragione i padri del deserto ammonivano: «Chi riconosce il proprio peccato è più grande di chi fa miracoli e risuscita un morto». È questa la potenza del segno delle ceneri sul capo del seguace di Cristo all’inizio della Quaresima, il segno che la Chiesa sa di anno in anno di dover accogliere come grazia di conversione. Si tratta in concreto di mettersi in discussione, di aprirsi all’umile riconoscimento dei propri limiti e delle proprie responsabilità, imparando a chiedere scusa invece di pretenderla, a riconoscere il proprio frammento di tenebra nel confronto franco e libero con l’altro. Si tratta di non sentirci collocati per principio nel consesso dei giusti, ma di metterci in fila con i peccatori, come il pubblicano della parabola che torna a casa giustificato perché umilmente consegna a Dio la consapevolezza della sua distanza da Lui e dunque non si erge a giudice degli altri, ma si fa loro umile compagno nella ricerca della fedeltà alla Parola.

Per questo, nei quaranta giorni quaresimali ci impegneremo ad avere un rapporto più assiduo con la Parola di Dio contenuta nelle sacre Scritture.


La preghiera sarà il dono di Dio che cercheremo di non sprecare e di intensificare. Ascoltare lo Spirito che parla nel cuore dei credenti è la perla preziosa di questo tempo che ci apprestiamo a vivere. Nel suo dinamismo profondo la preghiera quaresimale è un portare a Dio tutta la nostra vita, anche i suoi luoghi più periferici e doloranti, anche i meandri dei suoi smarrimenti e delle sue oscurità, affidandoli allo Spirito che li tramuta in un grido levato giorno e notte al Padre, perché venga il suo Regno. Quando tutta la vita entra nella preghiera, tutta la vita viene trasformata. Scendiamo allora in noi stessi e non lasciamo fuori nulla. Le ipocrisie, i tradimenti, le doppiezze dei discepoli del Signore, di noi che siamo la sua Chiesa, nascono proprio da qui. Non vogliamo scoprirci, non facciamo i conti con la nostra radicale povertà, ma indossiamo la maschera dell’autosufficienza e del potere, sentendoci migliori dei nostri fratelli. Nella preghiera quaresimale troviamo la strada del perdono e della consegna di noi stessi al Padre. Questo significa in concreto fare «il deserto nella città» (Carlo Carretto). Scopriremo così che abbiamo tempo per ascoltare la Parola, per pregare con i Salmi, per cantare inni, per stare in un silenzio di ascolto e di meditazione. Chiedere, supplicare, invocare, ringraziare, attendere, sono azioni che ci permettono di attivare tutte le potenzialità dell’uomo interiore animate dallo Spirito (cfr. Ef 3,13); e ci consentono di scoprire sempre più il nostro essere figli e figlie di Dio che stanno e vogliono rimanere davanti al volto di Dio, buono e misericordioso.

Ritorneremo poi a valorizzare il digiuno per ricercare il “pane essenziale” della vita e per la vita, il vero cibo per resistere alle lusinghe ammalianti del maligno, custodendo un cuore retto, audace nella ricerca e nell’attuazione del bene. “L’uomo non vive di solo pane” (Dt 8,3; Mt 4,4; Lc 4,4). Con il digiuno sviluppiamo un più autentico rapporto con noi stessi. Per un verso ci riappropriamo infatti della nostra signoria: non siamo schiavi dei bisogni. C’è nel digiuno una fierezza dell’umano, che dice come la nostra esistenza non sia una sequenza di risposte immediate agli stimoli del corpo e alle sollecitazioni dell’ambiente. Nulla di tutto questo viene negato nell’atto libero del digiuno, ma bensì accolto e padroneggiato nel cuore, così da renderci donne e uomini liberi, pronti a vivere l’avventura del desiderio dell’altro che crea interiorità e reciprocità.

Al contempo, nel digiuno e nella sua signoria rinunziamo paradossalmente ad attribuirci il potere sulla vita. Impariamo l’apertura all’Altro e il contatto con noi stessi. Scegliere di digiunare significa creare una condizione di mancanza in cui chiediamo che ci sia un altro cibo, donato da un Altro, che ci sostenga, dando così pienezza di senso a tutta la nostra vita. E mentre digiuniamo ci uniamo a tutti i fratelli che in tutto al mondo al digiuno – dal cibo, dalla pace, dalla bellezza, dalla vita stessa – sono costretti dalla durezza del mondo e dalla violenza della storia. Ecco perché ancora il nostro Papa ci ricorda che «il digiuno ci sveglia, ci fa più attenti a Dio e al prossimo, ridesta la volontà di obbedire a Dio che, solo, sazia la nostra fame».

Per questo durante la Quaresima saremo generosi nell’elemosina (eleèo in greco vuol dire ‘aver compassione’), vigilanti nella passione della carità, nella prossimità all’altro, con uno sguardo attento a “com-prendere” il suo bisogno, a provare sentimenti di “con-divisione” verso di lui, ad averne cura con il cuore, con la mente, con tutte le forze che abbiamo a disposizione, negando ogni lontananza e ogni estraneità. Ascoltando il clamore della terra e dei poveri che gridano il bisogno di custodia, di cura, di fraternità e di solidarietà.

L’elemosina è il modo attraverso cui ci riappropriamo del nostro legame con l’altro. Noi umani ci apparteniamo. L’altro è un mio simile. Nel volto dell’altro mi riconosco, solo il volto dell’altro mi dà la giusta misura della mia creaturalità e mi riconsegna alla continua scoperta dell’incontro solidale con gli altri uomini. L’altro che tende la mano ci pone il problema della “collocazione” dell’elemosina: si tratta infatti di un gesto che non appartiene solo alla generosità della carità personale ma anche al dovere della giustizia. Il fratello che tende la mano ci aiuta a dilatare gli spazi del necessario e scoprire ogni volta come oggi venga spesso considerato necessario il superfluo. L’elemosina allora ci interroga su quale sia la nostra apertura agli altri, ad ogni altro uomo, perché su questo si misura la carità non raffreddata. Ma il gesto dell’elemosina ci interpella su quale sia il nostro impegno per la giustizia, affinché la tanto sbandierata uguaglianza degli uomini e delle donne che abitano la casa comune e le nostre città sia veramente realizzata attraverso l’effettiva cura degli “ultimi”. Perché nell’elemosina la povertà viene compresa come frutto dell’ingiustizia. Nell’elemosina si restituisce e non si dona. E la vera elemosina può viversi solo se si è disposti a chiederla l’elemosina, a riconoscere cioè che siamo tutti poveri, siamo tutti accattoni. Il soccorso dell’altro non è un gesto di benevolenza, ma l’esigenza imprescindibile che deriva da una profonda comprensione di noi stessi. Se la povertà del fratello ci apre alla nostra povertà ci consente di tenere caldo il cuore, perché l’amore non si raffreddi, in noi e nella città degli uomini. L’amore, l’ingrediente essenziale per dare “sapore” (ed anche “sapere”) alla vita; per cambiare rotta e inventare nuovi percorsi di convivenza nella casa comune - il pianeta che abitiamo - e nelle nostre città.

Come ben vedete, sorelle e fratelli, queste tre vie della tradizione cristiana che la Quaresima ci offre non sono forme stantie ed obsolete di un passato sacrale da dimenticare, ma ci richiamano piuttosto ai punti fermi della nostra esistenza: il rapporto con Dio, con noi stessi, con gli altri. La Quaresima viene a chiederci di ricollocare nella pienezza e nella verità queste relazioni fondamentali della nostra vita. Una Chiesa che prega, che digiuna, che fa l’elemosina è una Chiesa che ha riscoperto il proprio Sposo e sa nutrire i figli che dà alla luce. Mettendoci su queste strade diventiamo più uomini, più cristiani, agiamo, magari senza saperlo, perché ogni uomo e ogni donna possano riscaldarsi e alimentare l’olio della loro lampada, in attesa della venuta del Signore.

Auguro a tutti voi e ad ogni uomo di buona volontà, in questa mia amata Diocesi, di vivere giorni di grazia: entriamo in contatto con noi stessi, assumiamo la nostra umanità, apriamoci all’urlo di dolore degli altri uomini, e accogliamo Dio che si dona a noi.

Giunga a tutti il mio personale augurio di buona Quaresima e il mio abbraccio benedicente”.

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